La Madonna dell’Oliveto
di don Aldo De Innocentiis e Alberto Verna
Giovanni Di Cecco fu Stefano era un modesto industriale di tessuti di lana di Fara San Martino che, per la sua attività, doveva recarsi spesso a Napoli sia per provvedersi della materia prima, necessaria alla sua industria, e sia per consegnarne i manufatti da smerciare. Non vi erano allora comodi mezzi pubblici di trasporto, e il povero viaggiatore o doveva fare a piedi i lunghi e faticosi sentieri delle valli e dei monti, o servirsi di traballanti e pericolose cavalcature per i tortuosi e difficili viottoli, o di rozzi e cigolanti carri sulle embrionali e scomode vie carrozzabili.
In uno di questi viaggi, il malcapitato Giovanni fu catturato dai briganti tra le intricate e ripide viuzze della montagna di Coccia, poco distante da Palena, e minacciato di morte se non consegnava quanto di valore aveva addosso. Il povero sventurato consegnò tutto, ma i malandrini, non contenti, stabilirono di trattenerlo fino a che i suoi parenti non avessero consegnata una rilevante taglia.
Cominciarono, con precauzione, s’intende, le subdole trattative presso la famiglia, e lascio immaginare ai lettori l’angoscia e l’amarezza dei poveri sventurati, i quali usarono ogni sforzo nell’offrire pur di liberare il proprio congiunto.
I giorni passavano e l’angosciato Giovanni doveva menare l’insolita e penosa vita della cattività sui monti, fra gli stenti, la fame, l’amaritudine, le incostanti intemperie e la gelida temperatura. Sempre sorvegliato, doveva seguire la vita nomade e pericolosa dei briganti e spesso i piedi sanguinavano per le inadatte e consunte calzature o l’eccessivo ed incomodo cammino; il corpo stanco doveva soffrire spesso lividure, escoriazioni, contusioni; e lo stomaco, sovente, doveva sopportare a lungo lo sdilinguimento per lo scarso cibo.
Il pensiero della famiglia, rimasta senza sostegno e nella miseria, per la taglia impostale; il ricordo dei vantaggiosi affari realizzati nel passato, ma ora abbandonati e perduti; la rimembranza della vita agiata, comoda e amorosa vissuta con i suoi nel caldo nido domestico, l’amareggiavano e l’avvilivano; l’incertezza dell’avvenire, sulla vita e sulla morte l’affannava e l’abbatteva; la sorte dei figli, ormai compromessa, lo rendeva taciturno e disperato. Esaminava egli la sua coscienza per accertare se la sua passata condotta avesse qualcosa da rimproverargli, moralmente e politicamente e potesse giustificare, quasi a punizione divina, quello stato di cattività. Ma, per quanto indagasse, la trovava ognora onesta, limpida e genuina. Affermava perciò, che la sola perfidia umana lo perseguitava e l’opprimeva irragionevolmente e ingiustamente.
Con tutto questo, però, doveva essere umile e servizievole, ubbidiente e remissivo con gli aguzzini; doveva fare buon viso a cattivo gioco per meritare la fiducia dei malviventi, la quale in un giorno, più o meno lontano, poteva essergli utile. E ciò lo lasciava sperare…! Una forza interiore glielo prediceva e lo rabboniva nei momenti di maggiore disperazione…!
E questo momento favorevole non tardò a venire…!
La masnada aveva girato tutto il giorno: aveva perlustrato il più recondito luogo; aveva catturato e trasportato abbondante bottino; era sfuggito alle più pericolose insidie della polizia. E ora quei manigoldi erano stanchissimi ma soddisfattissimi. Stavano sulla cima della Martillese. Si vedeva da quel punto, in tutta la sua pienezza, Civitella Messer Raimondo, dorata ancora dagli ultimi raggi del sol morente e, giù giù, nella penombra, si riconoscevano le prime case della parte più alta di Fara. I malandrini contemplavano l’azzurro limpido del cielo non che gli orizzonti incantevoli, ma tramavano biecamente il da fare, dando torvi sguardi alla vittima, di cui attendevano la taglia.
Se non che la stanchezza era forte e il sonno li prostrava. Si decise di riposare, mettendo una sentinella che vigilasse luoghi e persone. Si avvolsero nei loro mantelli, si sdraiarono sulla nuda roccia, si ammantarono con pesanti coperte, eh …, presto, dormirono profondamente.
Solo Giovanni, sebbene anche lui sfinito e affannato, non riusciva a chiudere occhio, per quanto situato come gli altri.
Si era nel mese di giugno del 1863, epoca in cui cominciavano a Fara i preparativi per la festa e la fiera di San Pietro, la cui chiesa era a pochi passi dalla casa del prigioniero.
In altri anni aveva goduto pur lui la baldoria paesana, aveva preso parte agli affari della fiera e aveva goduto felicemente, nella tranquillità della famiglia, l’affetto della moglie, l’allegria dei figlioli, le attenzioni degli altri familiari.
Pensando e ricordando, si assopì e sognò: l’aspetto e il movimento della fiera, negli acquisti e nelle vendite; notò tutto il paese imbandierato e addobbato con le luminarie; ascoltò perfino le note gaie della banda musicale che suscitava nell’immensa folla allegria e spensieratezza; rilevò che tutti avevano indossato vestiti a festa e in ogni famiglia i preparativi per il pranzo erano diligenti e intensi…quand’ecco la sua mente corse alla sua casa: vide la moglie in lacrime e trascurata nei vestiti e nella pettinatura; gli altri familiari dolenti; e i figli, che, negli ultimi anni passati, erano briosi e sorridenti in tale festa per la compagnia dei coetanei e per i numerosi giocattoli avuti in regalo dal babbo e con cui giocavano allegramente, li osservò invece pallidi, emaciati e fortemente abbracciati alla mamma nel pianto e nella disperazione. Tale stato di cose lo scosse e lo commosse, lo irritò e lo rese quasi folle. Si svegliò, girò lo sguardo d’intorno. Tutti dormivano profondamente, la sentinella non c’era. Si era allontanata chissà per quali motivi. Ma che gliene importava? Meglio per lui. Concepì il piano della fuga e senza titubanze l’attuò. Si era vicino all’alba e i primi chiarori si diffondevano fra le tenebre scomparenti. Fu in piedi…con prudenza cominciò ad allontanarsi, scendendo per la ripida e pericolosa china della montagna che, al solo pensiero, faceva tremare le vene e i polsi. Si allontanò di parecchio, quando il fuggitivo sentì e vide zirlare e fischiare, intorno a lui, sassi e palle di fucili.
Si accorse di essere stato scoperto; vide qualcuno che l’inseguiva. Ebbe momenti di indecisione; voleva fermarsi e darsi per vinto. Ma il pensiero dei suoi che l’attendevano, l’immaginazione della moglie che l’incitava a voce disperata a non indietreggiare, e quella dei figli che pareva stessero sul balcone di casa ad accennargli di proseguire risolutamente il suo eroico cammino lo rianimarono…e giù, come un pazzo, seguì la spaventosa e pericolosissima discesa fra le balze e i contrafforti, fra le lisce lastre e le anfrattuosità raccapriccianti, fra i pendii e le buche della montagna. Qualche sasso lo ferì di sbieco, qualche masso, rotolatogli dietro dagli inseguitori e ridotto in mille schegge, lo investì come una mitraglia che gli procurò più paura che nocumento, meno poche e insignificanti scalfiture, escoriazioni, edemi. Si sentì perduto, sfinito, attese la morte da un momento all’altro. Si inginocchiò, in un riparo, pregò brevemente e fervidamente la Madonna, che non aveva mai abbandonata in vita sua e a cui spesso, con tenacia e fervore si era rivolto, e fece il voto di farle ricostruire, ai piedi del monte, la chiesetta, se vi arrivava salvo.
Si risentì come un leone: ricominciò la discesa; saltò di balza in balza come un capriolo; scivolo su quei lastroni di pietra come una slitta; si nascose fra i contrafforti e riapparve più animoso di prima. La morte non era più per lui. I proiettili diminuirono a poco a poco i sassi si diradarono; i nemici imprecando e maledicendo, batterono in ritirata; egli era vicino alla meta; riaffermò la fiducia e la devozione alla Madonna e procedette più lentamente e cautamente la discesa tremenda. La Madonna l’aveva protetto col suo manto, l’aveva incoraggiato col suo amore, l’aveva salvato con la sua potenza.
Egli era arrivato alla meta. S’inginocchiò, baciò la terra, ringraziò fervidamente la Madre del Signore e la riconfermò Madonna dell’Oliveto. Promise che i lavori della chiesetta votiva sarebbero cominciati subito e tornò, in uno stato miserando, fra le sue creature che disperatamente l’attendevano.
Il dolore si mutò in emozione e quindi in gioia generale. Familiari, parenti, amici si congratulavano con lui che, ben presto, rasserenato e rinvigorito, ritornò alla sua passata attività, e il tempietto, in breve, nel 1964, fu ultimato.
La riconoscenza per il miracolo non fu solo individuale, ma di tutto il paese che serbò a lungo per la Madonna devozione sentita. Ora si è molto attutita, ma, sono sicuro, che presto, ricordando, la fiamma dell’amore per Lei ritornerà a brillare come una volta, al pari di un fuoco che si riaccende e il cui calore non più disperderà.