“Lumen Vitae Christus”. 72 anni, napoletano, stato civile: celibe. Anzi: “coniugato” con la Chiesa. Quella del Cristo lume della vita, come dal motto che campeggia sul suo stemma. Approda al 17esimo anno [settembre 2004-settembre 2021] l’episcopato di S.E. Bruno Forte. Padre Bruno, come ama essere chiamato, è il 97esimo vescovo di Chieti dall’840, anno di ufficiale inizio della numerazione dei presuli teatini. Il lungo elenco, che inizia con Teodorico I, sarebbe in verità suscettibile di variazioni tenuto conto dei casi di “amministrazione apostolica” e dei vescovi per così dire di epoca arcaica, spiritualmente parlando. E così bisognerebbe depennare qualche posizione dubbia e, di converso, aggiungere Quinto [499] e Barbato [594] e tanti altri per i quali però non sono state rinvenute fonti certe. Tra questi, addirittura, il Patrono Giustino che, comunque, per la consolidata tradizione “postuma” affermatasi in Città e riconosciuta dalla Chiesa, è per tutti i teatini Santo e Vescovo.
Teologo e docente di fama, già presidente della Conferenza Episcopale Abruzzese-Molisana, Padre Bruno vanta un curriculum di elevato spessore in quanto ad incarichi apostolici [presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede nel quinquennio 2005-2010 e membro di Pontifici Consigli ed Accademie, segretario speciale in due Assemblee sinodali] e riconoscimenti anche civili [lauree honoris causa Università di Melbourne, Lublino, Princeton (New Jersey); già componente del Consiglio Scientifico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana riceve, nel 2012, il prestigioso Premio Teologico delle Accademie Cattoliche di lingua tedesca a Salisburgo e, nel 2018, è insignito dell’Ordine della Minerva, il massimo alloro accademico dell’Ateneo “Gabriele D’Annunzio”; è stato membro del Comitato Scientifico dell’Enciclopedia Treccani fino alla nomina episcopale]. Succeduto ad Edoardo Menichelli, vanta alcuni nomi eccellenti fra coloro che hanno segnato il suo percorso: quello del Cardinale Corrado Ursi, che lo ordina sacerdote il 18 aprile 1973, e quelli di Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI, che rispettivamente lo nominano [26 GIU 2004] e consacrano [8 SET 2004] arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto.
Padre Bruno, la sua genealogia episcopale appartiene alla “linea Rebiba” [1541, dal nome del cardinale Scipione Rebiba, vescovo ausiliario di Chieti, consacrato tale dal cardinale Gian Pietro Carafa, arcivescovo di Chieti, assurto nel 1555 al soglio pontificio col nome di Paolo IV, già co-fondatore nel 1524 dell’Ordine dei Teatini]. Legge in ciò, e dunque nella comune appartenenza sacramentale, tra altri nomi illustri della Chiesa, con Papa Paolo IV ma anche con gli stessi Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, un segno di provvidenzialità e servizio nella luce di una Città dalla storia millenaria e di una diocesi permeata di analoghe valenze storico-ecclesiastico-civili?
R. “Ho sempre pensato che la Storia non s’improvvisa, poichè continuità di eventi, figure e tradizioni spirituali, culturali e sociali. Ecco perché ho cercato di valorizzare quanto e chi mi aveva preceduto nel servizio episcopale a Chieti. Mi riferisco non solo ai miei immediati predecessori da Bosio, a Capovilla a Valentini e Menichelli, ma anche a quelli remoti pensando di poter trarre da ognuno un insegnamento che mi servisse nell’esercizio del mio ministero. Così, ad esempio, dall’arcivescovo Gian Pietro Carafa ho tratto l’idea del Sinodo Diocesano proprio perché il futuro Papa Paolo IV dal 1508 al 1514 lavorò qui a Chieti ad un Sinodo che tanto incise nella vita della Chiesa locale. Esattamente cinque secoli dopo, dal 2008 al 2014, ho riproposto una analoga esperienza che si basa sull’ascolto di tutti i presbiteri, i religiosi e i fedeli laici ed è tuttora il riferimento pastorale delle nostre comunità ecclesiali, proiettandone le linee di futuro impegno. La storia, certo, non si ripete, ma si attualizza rinnovandosi di fronte alle sfide dell’ora in cui viviamo”.
Padre Bruno, nell’anniversario da poco trascorso del 17° anno del suo insediamento nella diocesi di Chieti-Vasto, quale è il bilancio del suo apostolato? Ed ancora: nella sua ormai Patria spirituale ha incontrato tanti uomini politici, sindaci ed amministratori della cosa pubblica. In particolare, per quelli teatini, e dunque per i 4 sindaci ricadenti nel suo mandato pastorale [Nicola Cucullo, Francesco Ricci, Umberto Di Primio e Pietro Diego Ferrara], quale riflessione può consegnarci in ordine al concetto di “amore verso il cittadino-persona” da lei percepito in essi primi cittadini?
R. “La sede episcopale non è semplicemente un nome, ma una realtà da conoscere, amare e valorizzare. Quindi ho cercato di cogliere la ricchezza della tradizione teologico-culturale della città di Chieti come di quella del Vasto e su questa linea ho anche pubblicato dei volumetti sulla storia civile ed ecclesiale delle due città per farne conoscere anche aspetti significativi e poco noti. Il rapporto con gli amministratori è stato sempre improntato ad un sincero rispetto e ad una proficua collaborazione per quanto di rispettiva competenza e ciò in ossequio al mio ruolo super partes che mi consente di essere il padre di tutti senza vincoli e senza una connotazione di colore partitico. Il risultato è che ho interagito con ciascuno degli amministratori citati valorizzando le possibilità e le capacità che ciascuno ha messo a disposizione della Città. Certamente vi sono stati momenti più ricchi e fecondi e momenti più faticosi, ma posso dire che il mio servizio mi ha impegnato a stimolare sempre al meglio i miei interlocutori civili. Ovviamente non ho mai rinunziato ad una costruttiva opera di vigilanza quando ho avuto l’impressione che fosse meno presente l’attenzione alla Città e al territorio tutto. Devo al riguardo aggiungere che da tutti ho ricevuto un sincero rispetto e di ciò sono a loro molto grato”. Padre Bruno, lei è considerato come un teologo “progressista”.
Probabilmente, ci confermi o meno questa impressione, ricorre una forzatura metodologica in tale inquadramento, poiché espressione di una catalogazione eccessivamente esemplificativa. Di certo, abbiamo imparato ad apprezzarla come “cantore” dell’Amore di Dio: che significato ha essere portatore di tale novella in una Città che, per ragioni opposte, viene catalogata, in via altrettanto esemplificativa, come “conservatrice”? E reggono tali logotipi in un periodo storico di profonde e repentine trasformazioni?
R: “Uno dei punti chiave del mio pensiero teologico, descritto spesso con l’espressione “teologia come storia”, è che il nostro porci in pensiero davanti al mistero di Dio risponde all’esigenza di collocarci fra il “già”, ossia la rivelazione di Dio nella storia e la grande tradizione della fede nei secoli, ed il “non ancora” quale futuro prossimo, ma anche remoto, della nostra speranza. Il teologo deve essere legato alla fonte preziosa della tradizione, ma nel contempo deve mostrare attenzione al presente e ad indicare prospettive di futuro, di speranza, di rinnovamento e cambiamento. Dunque, le categorie usate nella domanda mi sembra stiano cedendo il posto ad una più seria coscienza critica che si interroga su che cosa Dio dica oggi alla sua Chiesa ed alla nostra gente e su che cosa nella Chiesa possiamo intervenire per servire al meglio la gloria di Dio e la salvezza degli uomini che ci sono affidati”.
Tra la sua vasta e qualificata bibliografia, colpisce la “Lettera ai cercatori di Dio” da Lei presentata quale Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede [Roma 12 apr 2009] e diretta anche ai non credenti. Come comunicare alla società laica, ma anche alle società teocratico-fondamentaliste, la vera essenza della ricerca del volto di Dio?
R. “Parto dalla convinzione che Dio non è un oggetto che si possiede una volta per sempre. Dio è Qualcuno che continuamente ci visita, ci chiama, ci inquieta, ci consola. Il rapporto con Dio è il rapporto col Signore vivente, e come tale Gesù ce lo ha presentato. Questo significa che siamo tutti cercatori di Dio ed anche chi lo ha incontrato resta un pellegrino, un cercatore che deve costantemente interrogarsi su quanto il Signore gli stia dicendo. Il nostro essere credenti non può essere ridotto ad un bagaglio già dato, a un qualcosa di scontato su cui riposare. Certo, siamo sfidati dai dubbi, dalle inquietudini, dai bisogni. Ma la sfida è pure desiderio delle luci che si accendono nella notte della fede e nelle storie del tempo. La Lettera ai cercatori di Dio, stampata in Italia in oltre cinquecentomila copie e tradotta in molte lingue, col suo sforzo di usare un linguaggio adatto a tutti è sempre di attualità ma ora, anche alla luce della emergenza Covid 19, necessita di aggiornamenti che tratto nell’ultimo mio libro intitolato ‘Vorrei Parlarti Dio. Una proposta per chi è in ricerca’, edito dalla Queriniana di Brescia. Appena dieci anni fa vivevamo nella illusione di un progresso quasi inarrestabile basato sulle capacità tecnico-scientifiche dell’uomo. Oggi, i tanti, troppi morti causati dalla pandemia ripropongono la domanda del perché il male, del perché il dolore, di dove sia Dio in tutto questo e di come suscitare cammini di solidarietà con i più colpiti”.
Padre Bruno, Lei è intervenuto a censurare energicamente gli appunti, molti dei quali addirittura di “eresia”, rivolti da alcuni prelati al documento di Papa Francesco “Amoris Laetitia” [SET 2017] col quale il Pontefice ha aperto, alla comprensione ed alla misericordia divina, la posizione dei divorziati. Eppure, anche nella stessa Chiesa, taluni mettono ancora in forse i messaggi inclusivi rivolti a quei mondi, fra cui anche quello omosessuale, altrimenti destinati a vivere ai margini della comunità cristiana. R: “Il punto di partenza cui Papa Francesco guardava è quello dei divorziati risposati, molti dei quali vivono con rammarico il fallimento di precedenti esperienze matrimoniali e desidererebbero accostarsi ai sacramenti. Papa Francesco è convinto che l’amore di Dio raggiunga anche queste persone e la Sua domanda è conseguente: come possiamo far sì che anche la Chiesa esprima verso di essi una scelta di amore, di accoglienza, di misericordia? Amoris Laetitia in sostanza dice questo rispondendo di fatto anche ad alcune critiche interne: nessuno deve sentirsi condannato, o quasi scomunicato, siamo tutti bisognosi della misericordia di Dio. Nel concreto, per un divorziato pentito dei propri errori e risposato, accompagnato dal discernimento favorito dalla presenza di figure presbiteriali attente e vicine, v’è sempre la possibilità di essere raggiunto dall’amore di Dio e quindi di accedere ai sacramenti. Analogamente questo può valere per le persone omosessuali, che sono figli di Dio e quindi sono dal Lui amati e chiamati a vivere conformemente alla Sua volontà. Questo esige anche sacrifici e rinunzie, ma apre alla consolazione della grazia e della misericordia del Signore”.
Un altro tema teologico, che questa volta La riguarda più direttamente, è quello della “sofferenza di Dio”, conseguente al così detto “abbandono” di Gesù sulla Croce. Ecco, in “Gesù di Nazaret storia di Dio, Dio nella storia – saggio di una cristologia come storia” [2007, collana Simbolica Ecclesiale], Lei parla del “distacco doloroso per il Padre”, in quanto “se il Figlio soffre è perché il Padre soffre, precedendolo sulla via dolorosa”. Questa connessione sinergica di un disegno evidentemente divino, che “umanizza” la figura del “Dio Persona” e che ricalca, a livello filosofico, le tesi licenziate da Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling [1775-1854] in età adulta, è avversata dalla corrente teologica [Giuseppe De Rosa] che, invece, non ammette la sofferenza di Dio in quanto la sofferenza sarebbe in qualche modo conseguenza del “male”, per gli effetti non ascrivibile alla perfezione di Dio. Ma non è lo stesso Gesù [“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”] a far ipotizzare, in quel “perché”, urlato nel momento supremo della Passione, il presumibile sinallagma di reciproco dolore [tra Figlio e Padre] che Lei sottopone alla riflessione dei credenti? R: “L’impassibilità di Dio non è una tesi cristiana, ma di influenza aristotelica, connessa all’idea del Dio motore immobile. In tutta la tradizione cristiana, fin dai concili della Chiesa antica, si parla di un Dio crocifisso, di un Dio che ha sofferto: Giovanni Paolo II ha fatto sua questa dottrina in maniera molto chiara nell’Enciclica ‘Dominum et vivificantem’. Egli scruta nel mistero stesso della Trinità la presenza di una sofferenza che altro non è che l’altro nome dell’amore, perché chi ama rispetta la libertà dell’amato, ma proprio per questo si dispone a soffrire della possibilità di un rifiuto, di un allontanamento. Dio soffre perché è amore, e questo è il Vangelo. Questa è la tesi che ho cercato di sviluppare: non si tratta di sminuire Dio, di togliergli qualcosa, ma anzi di riconoscergli l’infinita bellezza e grandezza dell’amore, talmente libero da sé dall’essere pronto ad autolimitarsi, ad accettare il rifiuto, altrimenti l’uomo non sarebbe libero, come possibilità reale che provoca dolore al suo cuore di Padre. D’altra parte, la morte di Gesù in Croce è il segno che questo Dio si dispone a soffrire per amore nostro e che la risurrezione del Figlio rappresenta la certezza che l’ultima parola non sarà il peccato, il dolore, la morte, ma la vita, il perdono, la misericordia a cui tutti aspiriamo e per chi vi si apre nella libertà e nella fede”. PADRE BRUNO, altro motivo fondante della sua pastorale, è “l’ascolto dell’altro”, o meglio “la crisi dell’io nell’ascolto dell’altro” che lei analizza sotto vari aspetti. Rilevante è l’aspetto della storia e delle sue aberrazioni, da Lei spesso richiamato, come l’annullamento della Persona nel martirio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg il 9 aprile 1945. Qual è la causa del cortocircuito che nei regimi di varia epoca e colore, ma anche nelle democrazie imperfette, impedisce all’io di ascoltare l’altro? R. “L’ascolto nasce dalla convinzione che il nostro io non è tutto, non è un orizzonte chiuso ed autosufficiente. L’ascolto nasce dalla convinzione che siamo tutti bisognosi degli altri e che dobbiamo aprirci all’incontro con l’altro perché dagli altri ci vengono sfide e domande, ma anche luci e ricchezze. Quando si entra in questa logica di umanità solidale e fraterna, diventa importantissimo aprirsi all’ascolto dell’altro poiché dal reciproco scambio di doni cresce la nostra identità di persona umane, la nostra solidarietà di famiglia umana e di comunità degli uomini chiamata, nel disegno di Dio, a crescere nella giustizia e nella pace. La fatica di ascoltare l’altro si afferma dove c’è l’enfasi dell’io, come è avvenuto nelle ideologie totalitarie della modernità. Quando si presume di avere le chiavi della scienza e la risposta pronta per tutto non si è pronti a ricevere l’apporto dell’altro, che viene ridotto a massa. La massificazione degli altri è la conseguenza dell’enfasi posta sulla voce del capo, del dittatore di turno, dell’ideologia dominante. Grazie a Dio la crisi delle ideologie ci ha un po’ liberati da questa presunzione, anche se qui e lì essa ritorna sotto mentite spoglie: bisogna allora vigilare a che l’ascolto sia la via per la soluzione dei problemi in modo tale che a ciascuno sia consentito di offrire il proprio apporto e, ad ognuno, di essere aiutato da quello dato dagli altri”.
Padre Bruno, il confronto tra Chiesa e mondo laico, che lei ha sovente incoraggiato anche nella nostra Città, vedi il fortunato ciclo delle “Quaestiones Quodlibetales” [incontri su vari temi dell’etica, della filosofia, della storia e della scienza presso l’Ateneo “Gabriele D’Annunzio”], può recuperare la deriva di decadenza che spesso attanaglia le Istituzioni? R. “Dovunque si crea la possibilità dell’ascolto si genera l’occasione di una crescita comune. Su questa convinzione ho proposto ed organizzato, con l’Università D’Annunzio, quarantadue Quaestiones Quodlibetales nel corso degli anni, vere occasioni di confronto ai massimi livelli con esperti dei vari ambiti tematici di cui ci siamo occupati. Credo che questo apporto, al di là dei risultati immediati prodotti nelle coscienze di chi li ha seguiti, possa aver costituito occasione di educazione all’ascolto soprattutto in segmenti che brillano per complessità e per l’urgenza di soluzioni. Ecco perché le Quaestiones hanno stimolato la crescita verso l’altro non solo in ambito universitario, ma nel complesso di quel villaggio globale che ricomprende la nostra chiesa diocesana e la cultura del nostro territorio”.
La visita a Chieti, lo scorso maggio in occasione della solenne festività di San Giustino, del Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin [che nella circostanza ha benedetto gli scavi archeologici con un gradito fuori programma], rende merito alle sue capacità di accoglienza e di promozione della intera Diocesi, già evidenziatesi nell’invitare e ricevere Papa Benedetto XVI al Santuario del Volto Santo in Manoppello [1 SET 2006]. Quale è, a suo giudizio, il futuro di una Diocesi così importante e, in particolare, della Città di Chieti nella sua dimensione spirituale e sociale atteso il rischio di smarrimento del suo spirito identitario e con un pensiero politico che spesso si è rivelato “debole”? R. “Il futuro, sia per la Diocesi che per Chieti e la sua provincia, va sempre declinato su almeno tre orizzonti. Il primo è quello della crescita della qualità della vita per tutti. La provincia teatina, ringraziando il Signore, ha fatto registrare negli anni una notevole crescita economico-industriale, certamente rallentata dalla pandemia ma non per questo frenata. Mi diceva a suo tempo il Dr. Sergio Marchionne che l’unica l’industria FIAT veramente attiva in Italia è quella della produzione del Ducato in Val di Sangro. Non dimentichiamo, poi, i settori oleario-vinicolo e della pasta, a testimonianza della grande laboriosità della nostra gente. Il secondo assioma è che nessuno si salva da solo. Noi facciamo parte di un tessuto che si articola nella regione Abruzzo ed ovviamente nell’intero sistema Paese, per approdare a quel villaggio globale che è oggi il pianeta. Ecco perché mi sembra importante che ci sia un continuo interscambio di idee e di proposte ed anche una collaborazione a tutti i livelli, affinché si possano affrontare tutte le sfide dell’oggi, non ultime quelle imposte dal Covid. Il terzo orizzonte lo esprimerei con una frase icastica di Papa Francesco: ‘c’è qualcosa di peggio della pandemia ed è l’uscirne senza averne tratto profitto’. Come dire che le prove nella vita arrivano, ma guai a pensare che siano solamente negatività. Dobbiamo imparare anche da quello che le prove ci dicono e tutto ciò coincide col cantiere in cui oggi siamo tutti impegnati. Mi vengono in questi giorni richieste valutazioni sui molteplici effetti della crisi socio-sanitaria determinata dal Covid. Si lavora su contesti diversi, come ad esempio il convegno regionale delle Chiese d’Abruzzo o, a livello europeo, il volume a cui ho contribuito col concorso di altri teologi europei o, a livello universale, la Plenaria del Pontificio Consiglio dell’Unità che proprio in questi giorni stiamo tenendo on-line. Il tutto per rispondere alle domande provenienti da tutti i continenti, dai giovani e dagli uomini di buona volontà, su cosa questa pandemia ci sta dicendo e ci chiede. È dunque importante riflettere. Due istanze emergono molto chiare: la domanda, che si fa anche invocazione, sul perché un Dio buono permetta tutto questo, e l’altra, inevitabile, su quali sono le risposte in termini di solidarietà alle emergenze dell’alimentazione ed a quelle climatiche. Alle sfide globali è necessario fornire risposte unitarie grazie ad una solidarietà tra i popoli attenta e rispettosa, come sembrava poter essere nelle linee programmatiche della conferenza di Glasgow. Vedremo se i risultati saranno all’altezza”.