di Maria Raffaella Ricciuti: A volte il vento porta fin qui il suono delle campane di Fara , e quel suono, reso più dolce dalla lontananza e dagli echi della montagna, fa sì che mi ritrovi a vivere in “altro luogo, in altro mese, in altra vita”: la Pasqua a Fara.
Vengo riassorbita da quell’atmosfera e mi perdo nel mare dei ricordi.
La Pasqua non solo dal punto di vista religioso e liturgico, ma, nel ciclo delle stagioni e della vita che scorre insieme ad esse, era un punto di arrivo importantissimo.
La preparazione alla Pasqua iniziava con “le Quarantore”, le lunghe penitenze e i fioretti che dovevamo fare in riparazione dei peccati che si commettevano durante il diabolico, sfrenato carnevale.
Per la verità, i nostri peccati del periodo del carnevale consistevano in qualche goloso furto di “ cicerchiata” dalla dispensa di casa e nel giro del paese che facevamo ,infagottati in tristissimi stracci prestati dalle nonne o dai nonni, con le facce sporche di fuliggine per non farci riconoscere. Povere maschere, furtive e timide, osavamo qualche scherzo innocente picchiando alle porte delle case e fuggivamo guardinghi dietro l’angolo, per il gusto di vedere una persona scocciatissima che si affacciava sull’uscio e ci ricopriva di improperi. E questa era la parte trasgressiva del nostro carnevale.
La parte di “santa gioia edificante” ci veniva concessa dalle suore nell’Asilo Infantile. Sempre mascherati nei nostri stracci ci davamo alla “pazza gioia” lanciandoci in girotondi sfrenati e rumorosi, fino a quando il campanone ci chiamava al Vespero. A quel punto suor Giuditta ,e poi suor Gioconda, ci invitavano a ripulirci, a rimetterci in sesto per andare disciplinatamente in chiesa a chiedere perdono a Dio per tutti i peccati, compresi quel nostro gironzolare per il paese e per quell’ora di “commedia sfrenata” nei locali dell’asilo. Una volta riconciliati con Dio, ci preparavamo al digiuno, all’astinenza e poi alla cerimonia dell’imposizione delle Ceneri, che per me era angosciante con quel “Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”.
La Quaresima era tempo di penitenza, ma per i bambini offriva anche i suoi spazi di divertimento irrinunciabile. Tutte le sere , al suono solenne del campanone a distesa, venivamo richiamati in Chiesa per “le prediche”.Ma prima della predica c’era il tempo per giocare un po’ a “tana -tana o a “sassett’” sul Piano dei Santi e facevamo un chiasso ! Quando ripenso a quelle sere, tiepide per un timido annuncio di primavera, c’è sempre nel mio ricordo quel gran chiasso dei bimbi, quel vociare, quegli strilli che costituivano la colonna sonora della strada e che dopo è stata tristemente sostituita dal gracchiare dei motorini e dal rombo ossessivo delle macchine.
In chiesa le bambine, composte e compunte, occupavano i primi banchi, dalla parte del pulpito..
. I bambini occupavano i posti ai lati dell’altare e lì era un agitarsi continuo e frenetico di piedi che assestavano calci ai vicini, di teste che si muovevano in tutte le direzioni, di braccia che si allungavano per arrivare a tormentare le orecchie e le collottole dei compagni che reagivano con sollecitudine. Don Aldo , dal suo seggio, vestito con i paramenti solenni, si limitava a fulminare i più agitati con lo sguardo, ma ,di tanto in tanto, quando qualcuno gli capitava a tiro, allungava uno scappellotto “ sopr’ a u’ cuzzett’ di qualche monello più irrequieto.
Il predicatore, in genere era un frate cappuccino, scalzo e con la barba, saliva rapido le scalette del pulpito col saio che ondeggiava veloce intorno alle caviglie nude, ieratico e distante sopra le nostre teste. Dopo un “Sia lodato Gesù Cristo” pronunciato con voce profonda e solenne, indugiava, da consumato attore, in una pausa che doveva aumentare la tensione e l’aspettativa dell’assemblea. Poi iniziava la predica quasi in sordina, piano, lentamente, prima con voce suadente, bassa, poi via via sempre più profonda e cavernosa. Davanti alla nostra coscienza sfilavano tutte le nostre manchevolezze, le turpitudini, le nefandezze, le imperdonabili omissioni; quando eravamo cotti a puntino e ,compunti ,meditavamo sulla nostra malvagità, il predicatore veniva fuori con un urlo tonante che ci faceva sobbalzare e qualche bimbo, che aveva preso sonno in braccio alla madre, scoppiava in un pianto dirotto e doveva essere portato fuori in gran fretta. Fortunato lui perché gli venivano risparmiate le visioni orribili dei tormenti dell’Inferno: forconi diabolici che attizzavano le anime in un gorgo di fuoco tremendo, simile a quello che vedevamo nella fornace del Colle Marino, quando l’Impresa cuoceva le pietre per fare la calce; lugubri fantasmi che apparivano in sogno per mettere in guardia i dormienti dalla severità del Giudizio di un Dio tremendo e vendicatore, sogni che svanivano ma lasciavano sul lenzuolo impronte di mani bruciate, lotte titaniche sostenute da santi eremiti contro le forze del Maligno.
Ma la predica era lunga e le coscienze dei bambini leggere, per cui, dopo la terza , quarta visione infernale, quando il tono della voce discendeva in un “adagio con brio” e prima che iniziasse il “fervorino”, quando il predicatore, con le braccia tese verso l’altare, invocava con voce rotta dalla commozione ( e anche dall’assenza di impianti di amplificazione) la misericordia e il perdono di Dio sull’assemblea, i bambini avevano già rivolto la loro attenzione a cose meno alte e meno angosciose. Anche i banchi sotto il pulpito cominciavano ad essere percorsi da ondeggiamenti di teste e di volti in movimento frenetico, i piedini percuotevano il legno dell’inginocchiatoio traendone scricchiolii che facevano sussultare le pie donne, le suore e le catechiste che si limitavano ad accennare ,col gesto della mano, con l’aggrottare delle sopracciglia, con qualche tiratina di treccia, alle terribili punizioni di cui ci stavamo rendendo degne.
Il resto dell’assemblea non era molto più silenzioso della “piccionaia”! La chiesa era sempre gremita e alcune vecchie donne portavano da casa “na’ s’ggiol’ o nu’ ban chettell’” per sedere comodamente davanti ai banchi o nelle navate laterali. Una folla così imponente, in un luogo così ristretto, per quanto grande potesse essere la devozione, emetteva suoni diversi: colpi di tosse, frequenti soffiate di naso, e…. sospiri, profondi sospiri che parevano squassare i petti da cui provenivano. Il significato e l’intonazione di quei sospiri si potevano riferire a due atteggiamenti: c’era chi boccheggiava, commossa dalla predica e fortemente convinta di essere una peccatrice degna di tutti quei tormenti che il predicatore evocava con straordinaria oratoria, e si riconosceva dal viso contrito e spaventato, spesso la mano destra correva a battere il petto, ma c’erano altre che, al contrario, erano convinte della loro Coscienza netta, del loro agire inappuntabile di fronte a Dio e di fronte al prossimo e sospiravano pensando ai poveri disgraziati che meritavano pienamente la tragica sorte della Dannazione eterna, e questi peccatori incalliti avevano nome, cognome e soprannome e potevano essere molto vicini, spesso sedevano sullo stesso banco. Potevano essere la suocera, la cognata, il marito, la vicina dispettosa. E’ l’eterna storia del Fariseo e del Pubblicano che si legge nel Vangelo.
Il fervorino ci riportava ad un ascolto più calmo e partecipe, sapevamo che la predica si avviava alla conclusione e presto avremmo cantato il Pange lingua e poi il Tantum ergo che ci piaceva tanto e che cantavamo con immenso trasporto, anche se il senso delle parole ci era del tutto sconosciuto. Poi ci sarebbe stata la Solenne Benedizione e saremmo schizzati tutti fuori a giocare ancora un po’ sul Piano dei Santi
Aspettavamo con impazienza quel campanone a distesa; quel suono imponente, grandioso, ci toccava profondamente, risuonava dentro di noi come se fosse non solo la voce di Dio, ma anche quella del nostro paese, destava in noi un senso di appartenenza e di legame con i luoghi, le persone, gli affetti del presente e di tempi lontanissimi. Non esagero se dico che il suono del campanone a distesa, quando ci ripenso, ha ancora il potere di farmi accapponare la pelle, come allora.
Se confronto la forza e il potere che aveva la predica quaresimale sulla nostra vita, agli insulsi e scempiatissimi programmi televisivi che i nostri bambini sono costretti ad ingoiare, mi reputo mille volte fortunata per essere vissuta nel tempo in cui si concludeva la giornata col Campanone a distesa.
Alla fine delle prediche quaresimali si entrava nella Settimana Santa e, per me bambina, era Gioia Pura dall’inizio alla fine.
La settimana santa è preceduta da quel meraviglioso giorno che è la Domenica delle Palme. Per uno strano scherzo della memoria, nei miei ricordi non c’è mai una domenica delle Palme che non fosse illuminata da un sole trionfante. Sicuramente ci saranno state Domeniche Delle Palme piovose e fredde, ma quelle le ho dimenticate. La Domenica Delle Palme, nella mia mente ,è sempre una giornata di fulgido sole, di splendida primavera. Di solito è il clima a influenzare il nostro umore, ci sentiamo tristi in una nebbiosa giornata di novembre e allegri col primo sole di marzo. Nei nostri ricordi succede il contrario: é la gioia leggera che ti parte dal profondo del cuore a irradiarsi nel sole, nelle nuvole, nel vento tiepido, nel verde tenero dei boschi, nello scrosciare delle acque del fiume .
Fin dalla sera precedente era già bello e pronto il mazzetto di rami d’ulivo che dovevamo portare davanti alla chiesa per la benedizione. C’era chi aveva la Palma speciale: le nonne e i nonni sapevano intrecciare le foglie dell’ulivo intorno ai rami in modo da ricavarne dei piccoli capolavori, chi legava al mazzetto di rami di ulivo un mazzetto di viole e di primule profumate. Qualche bambino inseriva tra le palme intrecciate anche il suo uovo di Pasqua. Ma le palme che ondeggiavano in mezzo al Piano dei Santi erano tutte bellissime e festose. anche se raccolte in anonimi mazzi.
“Ingrediente Domino in sanctam civitatem Hebreorum pueri resurrectionem vitae pronuntiantes cum ramis palmarum hosanna clamabant in excelsis” ( mentre il Signore entrava nelle città santa, i fanciulli ebrei, annunziando la resurrezione della vita, e tenendo rami di palme, gridavano Osanna nel più alto dei cieli.) Sulla capanna di Betlemme gli Angeli “cantavano” “Osanna nell’alto dei Cieli”, ma i bambini ebrei “gridavano” con quanta forza avevano e agitavano le palme per far festa a Quel Nazareno che fra pochi giorni avrebbe cambiato il mondo. In quella “allegra caciara”, certamente il Nazareno distingueva ad una ad una quelle voci ed erano le voci dei figli di Gerusalemme, quelle dei greci, dei romani, di quelli della Siria e dell’Armenia, del Ponto e della Cappadocia e giù giù fino alle voci dei bimbi del Sudan, del Burkina Faso, del Niger, dell’India, degli abitanti delle favelas e dei bimbi di Haiti che hanno vissuto l’Apocalisse. “Sinite parvulos venire ad me”, aveva detto un giorno e i bambini accorrono ancora, accorrono sempre per gridare Osanna. Non c’erano bambini sotto il Pretorio di Pilato a gridare “Crocifiggilo”.
Una volta a casa si distribuiva la Palma benedetta ai parenti con un gesto simbolico di riconciliazione e di pace. Mamma prendeva la Palma nuova e la metteva sulla Madonnina di porcellana azzurra e bianca che aveva sul suo letto, dopo aver tolto
la palma dell’anno precedente che buttava nel fuoco. La Palma benedetta non poteva essere distrutta se non dal fuoco
Il lunedì la casa entrava nel pieno della preparazione spirituale e materiale alla Pasqua. Si cominciava col calare il rame dalle pareti . Gli arredi di rame venivano ripuliti con l’aceto e il sale, ma prima dovevano essere energicamente strofinati con uno straccio intinto nella cenere. Questo era il compito delle giovani di casa e delle bambine, a cui venivano affidati gli oggetti più piccoli e meno importanti. Alla fine del lavoro le pareti della cucina risplendevano. In questa occasione si lavavano tutti i vetri di casa, ma non era una grande fatica, le nostre case, infatti, avevano poche finestre e di dimensioni ridotte rispetto a quelle che vediamo nelle case attuali. Venivano cambiati anche i festoni di carta velina colorata che adornavano i fili che portavano la corrente elettrica alle lampadine e si ripulivano perbene i piatti che erano i nostri lampadari e che le mosche ,durante tutto l’anno, decoravano con i loro puntini neri. Si toglievano e si lavavano le tendine e i merletti che ornavano le credenze e gli armadi a muro e si provvedeva a cambiare tutta la biancheria di casa per far sì che, quando il Sabato Santo passava il prete per la benedizione, trovasse tutto in ordine e splendente. Quando ero bambina io, la Messa della Resurrezione veniva celebrata la mattina del sabato e il parroco e il predicatore uscivano a benedire le case quello stesso giorno.
Nel cortile di casa mia, c’era, e c’è ancora, una fontana con una grande vasca: il lavatoio, che comunica con l’orto di Teresa, la nostra amatissima catechista. Teresa si accollava, insieme ad altre ragazze, il compito di ripulire tutti i candelabri e le suppellettili della chiesa, questo lavoro veniva fatto nel suddetto cortile, con mia immensa gioia.
Sotto la direzione esperta e competente di Teresa , si “adunava” la Gioventù di Azione Cattolica, dalle Piccolissime, alle Beniamine, alle Aspiranti, alle Giovanissime e alle Giovani. Teresa , Iduccia, Aurora, Bice e Carmelita, Santina, Marietta, Giacinta, Emma e tante altre si davano da fare a lustrare gli oggetti sacri fino a farli diventare splendenti, ripulendoli dalle sgocciolature di cera, dalla fuliggine e dall’ossido accumulati nell’arco di un anno. La tendenza generale era alla caciara più totale, il chiacchiericcio fitto, le risate sonore, l’accenno ai canti , le battute di spirito, ma presto venivamo invitate con dolcezza a tacere e lavorare, magari pregando, perché era iniziata la “Settimana Santa” e non stava bene perdersi in chiacchiere inutili. C’era ancora nell’aria e nelle nostre coscienze l’eco delle prediche ascoltate , ma sarò sempre grata a quelle nostre catechiste per averci mostrato, nei loro commenti alle prediche, “l’altra Faccia di Dio, “, quella della Misericordia e della Pietà, per averci parlato più degli Angeli che dei diavoli, più di un Dio Padre che di un Giudice severo, più del Paradiso che dell’Inferno. Ho sempre pensato che per loro era naturale questa disposizione di spirito, perché Iduccia, Teresa, Aurora, Bice,e le altre vivevano una loro religiosità, semplice, innocente, gioiosa, francescana e sapevano trasmetterla naturalmente a noi, senza fatica. Da bambina, quando mi assaliva la paura del Giudizio Universale, mi era di grande conforto pensare che, forse, Iduccia e Teresa avrebbero testimoniato presso di Lui in mio favore, avrebbero detto che ero stata una buona Beniamina. Per Grazia di Dio , siamo, tutte e tre, ancora in questa Valle di lacrime, ma spero che chiunque, di noi tre, verrà a trovarsi per prima di fronte a Dio, vorrà spendere una parolina buona per le altre due.
Ma i lavori della settimana santa non si limitavano alle grandi pulizie di Pasqua, infatti, mentre le giovani ripulivano le suppellettili e la casa, le anziane e le vecchie, le mamme, le nonne, le zie si dedicavano alla preparazione dei dolci. Se passavi per le strade di Fara, a qualsiasi ora, sentivi l’allegro rumore della frusta che sbatteva le uova dentro enormi catini di coccio, “le vazzìe”. Le strade erano pervase dall’odore delle mandorle abbrustolite, del cioccolato, della cannella . Era una sinfonia di profumi che ti metteva addosso un’allegria spropositata dopo le astinenze e i fioretti della Quaresima.
La nostra era una società contadina e pastorale e la cucina era regolata sul ritmo delle stagioni e sulla disponibilità dei prodotti della campagna e della stalla. Così la cucina del Natale non prevedeva l’uso di grandi quantità di uova., ma c’erano i dolci con la marmellata, con i ceci, le mandorle e i fichi secchi. A Pasqua invece c’era una grande disponibilità di uova, c’erano il formaggio fresco, le ricottine favolose, confezionate dentro le fuscellette cilindriche, che i pastori ti versavano sulle foglie del fico. C’erano infine gli agnelli e i capretti che venivano sacrificati per il pasto di Pasqua. Ricordo, e questo ricordo è fra i più belli della mia esperienza umana, che, quando le greggi ritornavano negli ovili, per le strade, verso San Pietro, La Fonte e la Ripamorella, si sentiva il belato delle pecore e dalle stalle rispondevano gli agnelli e i capretti e questo suono, al crepuscolo, con le grandi ombre che scendevano dalla montagna, era di una dolcezza struggente. Più tardi, quando ho avuto la fortuna di leggere la prima Bucolica, ho pensato che Virgilio era certamente passato per questi luoghi e su quei suoni aveva accordato l’ “avena”(la zampogna) di Titiro
Al pensiero del pranzo di Pasqua con il rituale cosciotto di agnello “abbottonato” entravo in crisi profonda, provavo una pena struggente per quegli agnellini che sentivo belare e mi commuovevano fino alle lacrime, ma poi il profumo del ragù era troppo buono e non sapevo resistere alla tentazione. Per giustificare me stessa ero capace di ricorrere ad ogni pretesto e mi appellavo perfino alle Sacre Scritture e all’agnello che veniva consumato nella Pasqua ebraica “ Ecco come lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.”(Esodo,XII,11).
Per la mattina del Giovedì Santo doveva essere tutto pronto, la casa pulita e ordinata , le pupe, i cuori, i cavalli con la sella e le briglie, l’agnello con la bandierina col simbolo cristiano (che erano le prime lettere della parola greca Cristos sovrapposte e che noi leggevamo Pax). Le pupe, che meraviglia le pupe! Col grembiule ricamato, la collana col “pendandiffr”, quelle di pasta mandorle, con un uovo sulla pancia, quelle di pasta di rossi d’uovo. Se c’era in casa un fidanzato, era d’obbligo fare una pupa gigantesca , che oltre agli altri ricami, aveva degli ornamenti specialissimi fatti con i confettini argentati o colorati, e che il fidanzato regalava alla fidanzata ricevendone in cambio “ un cavallo” altrettanto grande e con tutti i suoi bravi finimenti.
Tutte queste delizie venivano poste in bella mostra sulla madia, che da noi si chiamava “l’archettavul’”, un monumentale mobile di cucina , con un robusto ripiano di rovere e due enormi cassetti ,che era dispensa, piano di lavoro, per ammassare il pane, stendere la pasta, preparare i dolci.. Si mettevano in fila le pupe, i cavalli e gli agnelli, i cuori i fiadoni e “li caiciunitt’” Tutta quella provocatoria mostra di leccornie doveva rimanere così, intatta, fino a quando “si scioglievano le campane”. La consegna era severissima e non venivano tollerati nemmeno i piccolissimi ,microscopici tentativi di scalfire e leccare un po’ di “chiatro”,la glassa candida ,che, quando si asciugava, diventava dura come un confetto.
Il pomeriggio del Giovedì Santo era interamente dedicato alla funzione religiosa, che oggi si chiama Messa in coena Domini, ma per noi era “Li Seppulcr’”. Era una funzione lunghissima, durante la quale , se non lo avevamo già fatto durante la mattinata, dovevamo confessarci. Al confessionale c’era la fila delle donne, lunga quasi quanto quella che c’è oggi all’Ufficio Postale. Noi bambine rischiavamo di diventarci grandi, perché eravamo rimandate sempre indietro, per dare la precedenza a qualche indaffaratissima “madre di famiglia”. Ma non è che mi dispiacesse tanto, visto che, quando veniva il mio turno, mi sentivo come quando stai per sedere sulla poltrona del dentista, e anche peggio, perché, mentre dal dentista devi tenere la bocca aperta senza parlare, il Confessore ti invitava a parlare e tu non sapevi assolutamente cosa dire. Quando il confessore diceva “Ego te absolvo”, mi venivano in mente tutti i peccati che avrei dovuto dire e di cui mi ero dimenticata o non avevo trovato le parole per spiegare, perché spesso si trattava di improperi lanciati contro i compagni ed era disdicevole dire in confessionale : “ho detto sci ccise, scelita brutt’ , mannaggia”. Ma la mia coscienza mi imponeva di elencare tutte le maleparole in decrescente gravità, sicché uscivo dal confessionale sicura di aver fatto una Confessione “incompleta e sacrilega”, venivo presa dal panico, le porte dell’Inferno mi si spalancavano davanti, allora mi rimettevo in fila e tornavo di nuovo a spiegare le mie colpe a quel povero cristiano, che doveva essere stanchissimo di ripulire le nostre Coscienze dalle colpe mortali e veniali, e ,appena sentiva che mi ero confessata un’ora prima, poco mancava che non mi mandasse a quel paese e qualche volta mi diceva : “Stai tranquilla, i tuoi peccati ti sono stati perdonati, anche quelli che non ricordi o che non conosci”,.cercando di evitare che mi ripresentassi di lì a poco per una terza e quarta volta. Ma io non stavo tranquilla per niente. Facevo la penitenza e aggiungevo una serie di Atti di dolore ,fino a quando le ginocchia cominciavano a dare segni di cedimento. Intanto la funzione proseguiva, La liturgia del Giovedì Santo è incentrata sulla commemorazione dell’Ultima Cena e l’istituzione dell’Eucarestia. Alla fine della funzione il Santissimo viene posto in un tabernacolo adornato in modo diverso dalle altre Esposizioni. Per la preparazione di questo tabernacolo, che la devozione popolare denominava erroneamente u’ Sepolcr’, una ventina di giorni prima del Giovedì Santo ,si seminavano il grano, l’orzo, l’avena, la cicerchia, le lenticchie, in grandi recipienti con la terra e coperti accuratamente, in modo che le piantine non vedessero la luce. Crescevano così dei grandi vasi di strane piante bianchissime, con tenui riflessi di un pallido verde Le piantine erano lunghe e ricadenti e
avevano l’aspetto di un tenero piumino. Ogni bambina portava in chiesa il suo vaso e in breve tutto lo spazio antistante l’altare in cui veniva posto il Santissimo, si ricopriva di questi strani, bellissimi fiori . L’altare era addobbato riccamente con le coperte di seta e le tovaglie ricamate. Finita la funzione il parroco passava per tutti gli altari delle cappelle laterali, copriva le croci con un drappo viola, rovesciava i candelieri e toglieva le tovaglie, infine legava le corde delle campane che sarebbero rimaste mute fino al momento del Gloria della messa della Resurrezione. Iniziava allora “U’ trapass”, il periodo di lutto stretto e di penitenza, durante il quale si doveva digiunare severamente. I bambini erano dispensati dal digiuno ma dovevano assolutamente astenersi da qualsiasi golosità.
Le campane tacevano, la gente pregava raccolta in silenzio davanti al Santissimo per almeno un’ora. Le donne si alternavano in questa veglia in modo che in Chiesa, fino a tarda notte, rimanesse sempre qualcuno. Ricordo che quell’ora di veglia, nel silenzio della Chiesa, era per me difficile da superare. Ero inquieta per il mistero che mi avvolgeva, per la solitudine della notte, per la stanchezza, ma restavo lì, tenacemente, perché, avevo sempre nella mente quel terribile rimprovero di Gesù: “Non avete saputo vegliare con me un’ora sola”: Da bambina soffrivo di insonnia e di paure notturne e supplicavo mia madre o mio padre o mia zia che vegliassero un pochino con me per farmi compagnia. Capivo benissimo ed avevo una gran pena per la solitudine di Cristo. Dal momento in cui le campane venivano legate, entravano in funzione le tric e trac. e le raganelle che, energicamente azionate dai ragazzi guidati da Vincenzo il sagrestano, facevano il giro per le strade per invitare la gente all’ora di adorazione.
E arrivava il Venerdì Santo.
Durante la mattinata non c’era quasi niente altro da fare se non attendere le tre per andare in chiesa. Per una sorta di sottile sadismo che è sotteso alla funzione educatrice degli adulti nei confronti dei bambini, per aggiungere una nuova e più cocente pena alle penitenze imposte dalla Chiesa, ci veniva improvvisamente ricordato che presto le vacanze sarebbero finite e che quello era il momento buono per metterci a posto con i compiti. Ogni nostra rimostranza era perfettamente inutile. Si digiunava, si evitavano i dolcetti come il diavolo l’acqua santa e si metteva mano ai due libri in nostra dotazione: il libro di lettura e il terribile Sussidiario, libri austeri, seri, tutta la pagina scritta senza neanche una figura ad interrompere il nero delle parole. Si sospirava a lungo sul Diario, sul riassunto e sul tema, che generalmente verteva sulla Pasqua ; poi si passava alle operazioni e alle equivalenze che per la maggior parte di noi erano più dolorose dell’appendicite e più noiose del “Giornale Radio”. Ecco perché il Venerdì Santo, nei miei ricordi è sempre una giornata nuvolosa, triste, almeno fino alle tre, ora in cui un lungo urlo della sirena ci ricordava “l’ora Nona”. Vivevo quel momento con straziante commozione. L’urlo della sirena mi precipitava nell’insondabile mistero della morte, non della morte come la conoscevo nel suo umano incedere tra noi, ma come la Morte in assoluto, come l’annullamento e la solitudine della condizione umana di fronte al mistero dell’universo, come qualcosa di immenso ed oscuro, che per un attimo aveva tolto dalla Terra quell’unica Persona che, sola, poteva darci la Speranza con le sue “ Parole di Vita Eterna”. Per un po’ Gesù era morto, veramente morto, in chiesa le croci erano coperte e i candelabri rovesciati. In quel momento poteva succedere di tutto ed io avevo paura, veramente paura. Provavo una strana consolazione nell’idea di ritrovarmi in chiesa con tutta la gente e con i preti. Ascoltavo, senza mai annoiarmi, la commemorazione delle “Sette Parole” : “Padre ,perdona loro perché non sanno quello che fanno”, “Oggi stesso sarai con me in Paradiso”. “Madre ecco tuo figlio, Figlio ecco tua Madre” “Sitio” , “Elì, Elì lamma sabactani”, “Pater, in manus tuas commendo Spiritum meum” “Tutto è compiuto”.E nonostante la mia giovane età, quelle parole mi sembravano così grandi da non avere bisogno di nessun commento e di nessuna spiegazione, perché parlano direttamente al cuore. Sono il riscatto e la speranza di tutta la nostra umanità.
. Poi il Sacerdote celebrante iniziava una serie di invocazioni a Dio , intervallate da un “Oremus, Flectamus genua , levate”, Che significa: “ Preghiamo, inginocchiamoci, alzatevi”. La folla ubbidiva, anche senza capire il significato delle parole, anzi dava ad esse significati completamente diversi e piuttosto cervellotici. In particolare quel “Levàte” era per molti un invito ad andarsene o ad astenersi da qualcosa. Spesso da piccola ho sentito dire dalle mie zie, quando c’era qualcosa da rimuovere o disapprovare: “Come dice il prete alla Messa del Venerdì Santo? Levàte, levàte!” Nel senso di “togliete, togliete”.
Iniziava poi l’adorazione della Croce col lungo ,dolente canto:”Popule meus quid feci tibi?” Che continuava, lento e solenne, come può essere il pianto di Dio sul suo popolo, , cantato dal coro dei vecchi ( quegli stessi che cantavano anche le Profezie della notte di Natale e della mattina del sabato, quando si benedicevano le acque e il fuoco), mentre il popolo si avvicinava ai piedi dell’altare per baciare la Croce.
Ma la tensione maggiore, la vera attesa era per la Processione del Venerdì Santo. Verso la Sagrestia c’era un movimento di adulti che si preparavano a sfilare con i Misteri C’erano i ragazzi che dovevano portare la Colonna, i chiodi, il gallo, c’erano le Pie Donne e la Veronica che portava il fazzoletto col Volto Santo, tutte erano rigorosamente vestite di nero da capo a piedi, con la faccia semicoperta da un pesante scialle perché non venissero riconosciute . Il primo nucleo della processione si andava formando,;andavano avanti i ragazzi con le tric e trac e le raganelle , dietro questi venivano i bambini disposti in due file, poi le donne e in mezzo alle due file camminavano, in ordine e seri i portatori dei Misteri: la colonna, i chiodi, la scala e il gallo, poi venivano la Veronica e le Pie Donne, sempre fra le due ali di donne che portavano le candele accese. Davanti alla statua del Cristo Morto procedevano i sacerdoti e i Fratelli della Congrega col cappuccio e la mantellina. Davanti alla statua della Madonna Addolorata venivano altre donne vestite di nero e velate. Dietro le statue veniva il coro composto dai soli uomini, poi il sindaco e le autorità, infine tutto il popolo. Quando usciva la processione era già notte ed il giro era lunghissimo ma non lo avrei perso nemmeno se me lo avesse ordinato il medico. Per me quel giro di Fara, di notte, col canto del Miserere, era un momento irrinunciabile di altissima spiritualità.
I bambini non sempre distinguono un evento dalla rappresentazione di esso; per me, quella che si portava per il paese non era la statua del Cristo Morto , ma era il Cristo Morto che portavamo lungo le strade a noi care.
C’era sempre la luna (la Pasqua , infatti, cade sempre la domenica che segue il plenilunio, dopo l’equinozio di primavera, quindi almeno uno spicchio di luna ci deve essere) .Le strade di allora erano silenziose e poco illuminate; in quella circostanza però, sul davanzale di ogni finestra, c’era una fila di lumini, dai balconi pendevano le coperte e i drappi di stoffa , qualche donna metteva sulla porta di casa un braciere col fuoco su cui si buttavano dei granelli di incenso, il profumo si spandeva nell’aria e tutte le povere strade diventavano chiese.
Il momento più bello di tutta la processione era per me il tratto che va da San Pietro al quartiere di Terra Vecchia. A San Pietro, davanti alla casa di zi’ Donatino c’erano due tavoli ricoperti con drappi per permettere una sosta ai portatori delle statue. Quando la processione si riavviava , noi bambini già avevamo fatto la discesa della Ripamorella e stavamo risalendo lungo le scale “d’u’ furruccio” verso il Gesù. Sulla piazzetta dovevamo fare una breve sosta, per via della fermata dei portatori. Stavamo sempre sulla piazzetta del Gesù quando la statua e il coro scendevano la Ripamorella. Quei momenti non li ho mai dimenticati. Avevamo davanti a noi la montagna illuminata dalla luna. La luce lunare o il sole al tramonto e all’alba sono gli unici fari degni di illuminare la montagna; la montagna è il trono di Dio e si mostra in tutta la sua sublime bellezza solo sotto le luci del firmamento. C’era il silenzio della notte sottolineato dallo scorrere delle acque del fiume e improvvisamente si levava alto e straziante il canto del Miserere. Non mi intendo di musica e non ne capivo niente nemmeno allora, forse quel coro non somigliava neanche un po’ a quello dell’Accademia di Santa Cecilia, ma non lo avrei cambiato con nessun altro coro al mondo. Quelle note tenute a lungo e che terminavano quasi in un singhiozzo, partivano dai precordi e salivano possenti e chiare ad invocare il perdono e la Pietà di Dio. Il sentimento che animava i cantori veniva da molto lontano, conteneva i lamenti e il pianto di tutta quella folla di persone che avevano da secoli calpestato quelle strade, piegate dalla fatica, poveri e derelitti, umiliati ed offesi; c’era il pianto di tutta l’umanità
.. Le parole del Re Davide non hanno bisogno di commenti, esprimono da sole tutta la fragilità e tutta la grandezza dell’umana natura. Il canto che le accompagna è il canto triste e dolente dell’umanità sofferente, ha la solennità e la sacralità del canto gregoriano, è nello stesso tempo il canto lungo, straziante del “Lamento della Vedova”, di certi Spirituals dei neri fatti schiavi in America, il lamento che doveva venire dal cuore degli Ebrei, quando le cetre non accompagnavano le danze e gli inni sacri, ma “dai salici pendevano ,mute al triste vento”. Tutto questo era per me quel Miserere cantato da un umile coro di paese, senza accompagnamento di violini, lì, in faccia alla montagna, sulle strade sconnesse e dirupate, dietro il simulacro di un Uomo che poteva rivolgersi a Dio chiamandolo Padre e che si era caricato di tutto il dolore del mondo.
Dopo questo lungo,. indimenticabile momento di “incantamento”, venivamo risucchiati dallo stretto vicolo di Terravecchia e lì ci riappropriavamo della nostra dimensione umana. Quella strada stretta, quelle piccole case, addossate le une alle altre ,come per sostenersi, parlano al cuore di ogni farese. Passarci con la Processione era come rivivere un altro tempo. Alla fine della strada si apriva la piccola, stupenda chiesetta dell’Annunziata con le Sibille che conoscevano fin dalla notte dei tempi il Mistero di quella Processione. Si usciva nella Piazza dalla Porta del Sole ed era come rientrare nel presente. La tensione si allentava un po’, i cantori tacevano, ma tutti sapevamo che presto il canto sarebbe ripreso, alto e maestoso, ma con una punta di….trasgressione. Nelle azioni umane, anche in mezzo al dolore e all’afflizione, c’è sempre il momento del riso e della leggerezza, perché anche il riso e la capacità di scherzare sono caratteristiche squisitamente umane. E quello scherzo, noto a tutti ,consisteva nell’attaccare con voce possente la penultima strofa del Miserere, quella che inizia con “Benigne fac Domine”, proprio quando il coro passava sotto la casa di Benigno, “a pit a la piazza”. Era uno scherzo innocente che non voleva offendere nessuno, il possessore di tanto “soprannome” sapeva che i cantori lo avrebbero chiamato…. in latino e rideva sotto i baffi. Anche noi bambini sapevamo che ci sarebbe stato questo siparietto e ridacchiavamo in sordina. A quel punto si era quasi alla fine della processione, rimaneva da fare solo la salita dell’Ospedale, per riscendere poi al Piano dei Santi. Eravamo un bel po’ stanchi, ma si aspettava pazientemente in piedi, che le Statue, i Misteri, i Sacerdoti e il coro rientrassero in chiesa, poi di corsa a casa, a dormire, sognando la montagna, la luna, il Miserere.
La paura era scomparsa, la Morte era vinta, domani le campane si sarebbero sciolte nel canto del Gloria e sull’Altare sarebbe apparso il Salvatore.
Le campane della mattina di Pasqua erano così gloriose, così trionfalmente gioiose, mettevano le ali ai nostri pensieri e ai nostri cuori e davano un senso di liberazione, di leggerezza. Assaporavamo la Vita in tutta la sua pienezza. Sapevamo che, a parte qualche incombenza un po’ difficile da assolvere, l’intera giornata e anche il giorno successivo sarebbero stati vera, grande festa. Mamma ci rivestiva dei panni migliori, a volte erano i vestitini nuovi, lungamente attesi e preparati proprio per l’occasione della Pasqua. Si andava prima a Messa, poi mio fratello ed io dovevamo andare a fare gli auguri al padrino e alla madrina di Battesimo, e queste erano visite difficili perché, dopo essere entrati e aver detto la formula di rito : “Tanti auguri e buona Pasqua anche da parte di mamma e papà”, non sapevamo più cosa dire, né quando era il momento giusto per salutare ed andarcene. Rimanevamo là impacciati a dondolarci da un piede all’altro, fino a quando riuscivamo a cogliere un segno di commiato da parte del nostro ospite.
Il padrino, detto Sor Compare, era una persona simpaticissima, molto alla mano, capiva il nostro imbarazzo e, senza tenerci sulle spine, diceva : “ Date un dolcetto a questi bambini, che debbono andare da donna Concetta” E questo era un segnale esplicito che era venuto il momento di salutare e imboccare il viale che portava al cancello inferiore della villa. Si attraversava uno spazio bellissimo, un vasto prato delimitato da siepi di lauroceraso intervallate da enormi vasi di pietra, poi veniva il viale di tigli in fondo al quale c’era il cancello che dava sulla strada dove è anche la villa della madrina. Sia il giardino di Sor Compare che quello della Comare erano per me i due luoghi più belli della Terra. Ancora oggi tornano in certi miei sogni fatti di luci, di colori e di tenere visioni della mia infanzia. Davanti alla porta della Comare litigavamo per chi doveva suonare e presentarsi per primo; avevamo un gran timore di sbagliarci nel recitare la formula, di dare fastidio, di essere goffi, impacciati .e inopportuni. Ci accoglieva quasi sempre Antonietta che ci pilotava verso il soggiorno e ci raccomandava di aspettare buoni buoni la Comare. Nel soggiorno c’erano due enormi poltrone di pelle, le famosissime poltrone Frau nelle quali ci saremmo persi se non avessimo avuto l’accortezza di ritrarci in un angolino piccolo piccolo. La comare Nunziatina sapeva che stavamo sulle spine e la nostra conversazione era limitata a quattro monosillabi, sorrideva e cercava di metterci a nostro agio. Ricordo che mi aggiustava sempre il nastro dei capelli che era costantemente storto e pencolante, tirava su i calzettoni che scendevano inesorabilmente verso le scarpe. Erano dei gesti che compiva con estrema naturalezza, per quella sua attitudine a rimettere tutte le cose secondo un ordine che è insito nel suo modo di essere e che ha sempre fatto di lei una persona con un istinto naturale per ciò che è bello, elegante e di buon gusto.
A casa trovavamo sempre gli zii : zio Alberto, zi’ Rocco, zi Alberto Alleva (per noi zio Albertuccio) e zio Giovanni Grossi. Non saprei immaginare una di quelle Pasque felici senza la presenza di queste quattro persone. Erano parte integrante di quel caldo nido di affetti indispensabili per la completezza e la serenità della festa.
La casa a quel punto era pervasa dal profumo del ragù , la pasta alla chitarra era già pronta sulla madia e c’era ancora il tempo per fare una passeggiata con papà verso la curva di Pil’rusc’.
Si andava a cogliere le viole che erano fiorite sui bordi della strada e tra gli ulivi.
Il suono delle campane di mezzogiorno ci coglieva su quella via, papà ci richiamava, ci prendeva per mano, ci parlava, raccontava, mentre ci affrettavamo verso casa.
Sono passati un mucchio di anni, ma quella voce mi parla ancora sommessamente
e ancora sento nella mia il tepore di quella mano.
Maria Raffaella Ricciuti
Conoscevo già le capacità narrative della prof.ssa Maria Raffaella Ricciuti per aver letto le sue due precedenti pubblicazioni. Oggi apprezzo ancora di più i suoi ricordi, che in piccolissima parte sono anche i miei, espressi in un linguaggio elegante e ricco di tenerezze verso un modo di esperienze che ha formato la sua fanciullezza e la sua vita. Complimenti per questa bella testimonianza.
Complimenti all’ autrice del particolareggiatissimo racconto. Certo si possono notare alcune incongruenze col presente che in alcuni punti non è fedele ( il racconto è di quando sia Teresa Verna che Ida erano vive,e solo da questo particolari si capisce che non è stato scritto pochi giorni fa come si è portati a credere all’ inizio). La densità e pregnanza del filo narrativi sono tali che stupisce che una simile capacità narrativa non sia stata sfruttata, ma tenuta riservata, e privata. Ma conoscendo bene l’ umiltà ( così rara ai nostri tempi di impastrocchiatori digitali) della Nostra, le perdoniamo volentieri questi suo… peccato di modestia. Grazie, grazie per questo racconto, tanto edificante quanto prezioso.